Il solitario Márquez: cent’anni di memoria narrativa
di Monica Merola (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)
“Siamo in piena guerra fredda, da poco c’è la crisi dei missili ed è appena morto un Kennedy. Dustin Hoffman intanto interpreta il Laureato, interpretando una generazione”. Attraverso questi avvenimenti lo scrittore e direttore editoriale di Einaudi, Ernesto Franco, commenta al Circolo dei lettori il 1967 attraverso il libro “Cent’anni di Solitudine”. Il ’67 fu l’anno in cui nacque il capolavoro di Márquez, ma fu anche il simbolo “del vibrante giorno prima” del maggio ’68, ovvero il momento in cui “il mondo cambiò il modo di vedere il mondo”.
Anche in America Latina la fine degli anni Sessanta sarà cruciale. L’8 ottobre del ’67 viene catturato e mutilato Ernesto Che Guevara. Dall’anno seguente i giovani americani “lo crederanno un contestatore, anche se era molto di più, era un guerrigliero”. Ma in letteratura? In Europa ci sarà un periodo molto fecondo di consapevolezza artistica e narrativa. La voce leggermente gutturale di Fausto Paravidino, attore, drammaturgo e regista, accompagna le riflessioni di Franco con la lettura dell’epopea dei Buendìa e del capofamiglia José Arcadio. Il romanzo, ambientato nella città immaginaria di Macondo, consegna un ritratto delicato e complesso di sette generazioni della famiglia Buendía. “Gli occhi gli si inumidirono di pianto (…) prima di riconoscere nel nuovo venuto un abbagliante fulgore di gioia”. Un passaggio che apre la riflessione sui racconti brevi di “Cronopios e di Famas”, scritti da Julio Cortazar nel 1962. Per Franco infatti sarebbero potuti essere tranquillamente protagonisti del racconto di Márquez.
“La forza del romanzo – commenta – è la capacità di disegnare un tempo e un luogo che siano senza tempo”. Moretti scrisse che questo è un modo che Márquez utilizza per “naturalizzare la realtà in cui e’ immerso”. Uno scrittore contemporaneo ma di conquista. Nel romanzo Arcadio ha 17 figli da 17 donne diverse, e sopravvive a 14 attentati e 73 imboscate, oltre che a una dose di stricnina “che avrebbe ucciso un cavallo”. Per Franco mancherebbe qualcosa al romanzo “se non ci fosse questa numerazione, con l’idea di essere molto precisi nel racconto. Questo trasmette al lettore, infatti, una paradossale idea di caducità e una precisa idea esistenziale. Il passaggio su questo mondo vale la pena proprio perché è solo un passaggio. Non c’è altra verità”.
A Márquez fu domandato, durante un’intervista televisiva, del realismo magico. Lo scrittore rispose definendosi “un realista triste”, rimarcando la conclusione morale del suo capolavoro, raccontato moltissimo ma forse compreso troppo poco: “Le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avranno una seconda opportunità sulla terra”.