Metamorfosi: memorie di Atteone
di Sabrina Colandrea (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)
In qualunque tradizione, c’è almeno un mito che descrive una metamorfosi animale. Quello di Atteone, il cacciatore tramutato in cervo e fatto sbranare dai suoi stessi cani dalla dea Artemide, per averla sorpresa nuda, ha conosciuto particolare fortuna, tanto in letteratura quanto come motivo iconografico. La teoria di Gennaro Carillo, ordinario di Storia del pensiero politico all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e autore, tra gli altri, di “Atteone o della democrazia”, è che Ovidio, autore della versione più celebre del mito, potrebbe aver composto la sua poesia dopo aver ammirato un affresco. Per poi diventare a sua volta modello di iconografia.
Dal III libro delle “Metamorfosi” ovidiane: “Si sa che bisogna aspettare l’ultimo giorno di ognuno, la sua morte, prima di poter dire che è stato felice”, declama Irene, che reciterà brani di autori che hanno trattato il mito di Atteone, poi commentati da Carillo, per tutta la durata dell’incontro. “Quella di Ovidio è la versione più fortunata, ma non la prima. Non esiste la versione zero di un mito”, osserva il professore, che si dice “monomaniaco di Atteone”, poiché rivede il mito del cacciatore tramutato in cervo dappertutto. “Il caso ha voluto che persino qui – nella Sala Grande del Circolo dei lettori – si trovasse una piccola statua in bronzo di Atteone divorato dai cani, che ne testimonia la fortuna”.
La versione di Ovidio si è diffusa più di quella callimachea perché il latino l’ha resa canonica per la nostra cultura. In seguito, le volgarizzazioni del mito di Atteone si sono moltiplicate, in francese, in tedesco, in inglese, lungo due tendenze opposte: quella alla conservazione – di un elemento strutturale, da cui il mito non può prescindere – e quella alla variazione.
Carillo discute una serie di esempi. In “Splendori e miserie delle cortigiane”, ultimo atto della trilogia della commedia umana di Balzac, Artemide diventa una cocotte rieducata, ammirata dal barone Nuncingen durante una passeggiata notturna. C’è una teofania simile anche in “All’ombra delle fanciulle in fiore”, secondo volume della “Recherche” di Proust, dove un’altra “Diana moderna” viene ammirata da una schiera di uomini. Nella“Penthesilea” del drammaturgo tedesco Kleist, invece, la regina delle Amazzoni confonde baci e morsi, il che rimanda all’affetto di Atteone per i suoi cani, che lo ricambiano divorandolo.
Carillo si spinge oltre: intravede il mito di Atteone anche nell’incontro tra Josef K. e il pittore Titorelli ne “Il Processo” di Kafka. Josef scorge il ritratto di un giudice alle cui spalle troneggia una dea bendata con in mano la bilancia. Non è propriamente la Giustizia. Si tratta di una figurazione incongrua, perché ha anche le ali ai piedi. Non è neppure la Nike. Alla fine, pensa: “Sembrava in maniera perfetta la dea della caccia”. Non a caso, secondo Carillo, Josef K. morirà sgozzato come un cane, “poiché vedi Artemide e poi muori”.
Tra gli esempi contemporanei, il professore ha poi citato lo scrittore polacco Witold Gombrowicz, che in origine voleva intitolare “Atteone” il suo “Pornografia”, romanzo sul voyeurismo, sulla totale assenza di innocenza nell’atto del vedere.
“Ma un mito, per sopravvivere, non si affida soltanto ad autori canonici. Anzi, si fortifica attraverso le trivializzazioni”. Per spiegare il senso di questa affermazione, Carillo mostra al pubblico delle raffigurazioni del castigo del cacciatore: prima il dipinto di Tiziano intitolato “Diana e Atteone”, poi, per contrasto, una fotografia, patinata e volgare, che ricompone la scena in un boudoir. L’autore è il fotografo contemporaneo, dal nome evocativo, Tom Hunter, che sostituisce ad Artemide niente meno che Kim Cattrall, la Samantha Jones di “Sex and the city”.
Il mito si nutre anche di interpretazioni allegoriche, utili a depotenziare il tremendo castigo cui Atteone è sottoposto. Vengono recitati due brani, uno di Giordano Bruno, l’altro di Petrarca, che rispondono a loro modo alle domande: “Chi è Atteone? Cosa rappresentano i cani?”. Il filosofo evidentemente si identifica con il cacciatore, alla ricerca non più di Artemide, bensì della verità. I mastini sono i suoi stessi pensieri. Poco importa se, aumentando la propria sapienza, accresce anche il dolore: “Il filosofo cerca la morte corporale, per liberarsi del pongo greve che lo avvince ai sensi e ambire alla verità”, commenta Carillo.
In “Nel dolce tempo della prima etade” di Petrarca, invece, il desiderio trasforma l’uomo prima in lauro, poi in bestia. “Vero dirò (forse e’ parrà menzogna) / ch’i’ senti’ trarmi de la propria imago / et in un cervo solitario et vago / di selva in selva ratto mi trasformo: / et anchor de’ miei can’ fuggo lo stormo”: spogliato della sua forma umana, l’innamorato è inseguito dai cani, che qui rappresentano le passioni amorose, da cui sarebbe meglio fuggire.