Metamorfosi: memorie di Atteone

Metamorfosi: memorie di Atteone

Metamorfosidi Sabrina Colandrea (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

In qualunque tradizione, c’è almeno un mito che descrive una metamorfosi animale. Quello di Atteone, il cacciatore tramutato in cervo e fatto sbranare dai suoi stessi cani dalla dea Artemide, per averla sorpresa nuda, ha conosciuto particolare fortuna, tanto in letteratura quanto come motivo iconografico. La teoria di Gennaro Carillo, ordinario di Storia del pensiero politico all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e autore, tra gli altri, di “Atteone o della democrazia”, è che Ovidio, autore della versione più celebre del mito, potrebbe aver composto la sua poesia dopo aver ammirato un affresco. Per poi diventare a sua volta modello di iconografia.

Dal III libro delle “Metamorfosi” ovidiane: “Si sa che bisogna aspettare l’ultimo giorno di ognuno, la sua morte, prima di poter dire che è stato felice”, declama Irene, che reciterà brani di autori che hanno trattato il mito di Atteone, poi commentati da Carillo, per tutta la durata dell’incontro. “Quella di Ovidio è la versione più fortunata, ma non la prima. Non esiste la versione zero di un mito”, osserva il professore, che si dice “monomaniaco di Atteone”, poiché rivede il mito del cacciatore tramutato in cervo dappertutto. “Il caso ha voluto che persino qui – nella Sala Grande del Circolo dei lettori – si trovasse una piccola statua in bronzo di Atteone divorato dai cani, che ne testimonia la fortuna”.

La versione di Ovidio si è diffusa più di quella callimachea perché il latino l’ha resa canonica per la nostra cultura. In seguito, le volgarizzazioni del mito di Atteone si sono moltiplicate, in francese, in tedesco, in inglese, lungo due tendenze opposte: quella alla conservazione – di un elemento strutturale, da cui il mito non può prescindere – e quella alla variazione.

Carillo discute una serie di esempi. In “Splendori e miserie delle cortigiane”, ultimo atto della trilogia della commedia umana di Balzac, Artemide diventa una cocotte rieducata, ammirata dal barone Nuncingen durante una passeggiata notturna. C’è una teofania simile anche in “All’ombra delle fanciulle in fiore”, secondo volume della “Recherche” di Proust, dove un’altra “Diana moderna” viene ammirata da una schiera di uomini. Nella“Penthesilea” del drammaturgo tedesco Kleist, invece, la regina delle Amazzoni confonde baci e morsi, il che rimanda all’affetto di Atteone per i suoi cani, che lo ricambiano divorandolo.

Carillo si spinge oltre: intravede il mito di Atteone anche nell’incontro tra Josef K. e il pittore Titorelli ne “Il Processo” di Kafka. Josef scorge il ritratto di un giudice alle cui spalle troneggia una dea bendata con in mano la bilancia. Non è propriamente la Giustizia. Si tratta di una figurazione incongrua, perché ha anche le ali ai piedi. Non è neppure la Nike. Alla fine, pensa: “Sembrava in maniera perfetta la dea della caccia”. Non a caso, secondo Carillo, Josef K. morirà sgozzato come un cane, “poiché vedi Artemide e poi muori”.

Tra gli esempi contemporanei, il professore ha poi citato lo scrittore polacco Witold Gombrowicz, che in origine voleva intitolare “Atteone” il suo “Pornografia”, romanzo sul voyeurismo, sulla totale assenza di innocenza nell’atto del vedere.

“Ma un mito, per sopravvivere, non si affida soltanto ad autori canonici. Anzi, si fortifica attraverso le trivializzazioni”. Per spiegare il senso di questa affermazione, Carillo mostra al pubblico delle raffigurazioni del castigo del cacciatore: prima il dipinto di Tiziano intitolato “Diana e Atteone”, poi, per contrasto, una fotografia, patinata e volgare, che ricompone la scena in un boudoir. L’autore è il fotografo contemporaneo, dal nome evocativo, Tom Hunter, che sostituisce ad Artemide niente meno che Kim Cattrall, la Samantha Jones di “Sex and the city”.

Il mito si nutre anche di interpretazioni allegoriche, utili a depotenziare il tremendo castigo cui Atteone è sottoposto. Vengono recitati due brani, uno di Giordano Bruno, l’altro di Petrarca, che rispondono a loro modo alle domande: “Chi è Atteone? Cosa rappresentano i cani?”. Il filosofo evidentemente si identifica con il cacciatore, alla ricerca non più di Artemide, bensì della verità. I mastini sono i suoi stessi pensieri. Poco importa se, aumentando la propria sapienza, accresce anche il dolore: “Il filosofo cerca la morte corporale, per liberarsi del pongo greve che lo avvince ai sensi e ambire alla verità”, commenta Carillo.

In “Nel dolce tempo della prima etade” di Petrarca, invece, il desiderio trasforma l’uomo prima in lauro, poi in bestia. “Vero dirò (forse e’ parrà menzogna) / ch’i’ senti’ trarmi de la propria imago / et in un cervo solitario et vago / di selva in selva ratto mi trasformo: / et anchor de’ miei can’ fuggo lo stormo”: spogliato della sua forma umana, l’innamorato è inseguito dai cani, che qui rappresentano le passioni amorose, da cui sarebbe meglio fuggire.

“Occupy central with love and peace”, Benny Tai da Hong Kong alla Biennale

“Occupy central with love and peace”, Benny Tai da Hong Kong alla Biennale

Occupy Central with love and peacedi Gianluca Palma (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

Settantanove giorni di occupazione per chiedere democrazia. Le strade del centro di Hong Kong e di altri due quartieri invase spontaneamente da decine di migliaia di persone, soprannominate “umbrella movement”, perché si proteggevano dai lacrimogeni con gli ombrelli. Un popolo che, seguendo le “regole” della disobbedienza civile, ha protestato contro il governo di Pechino, contrario a concedere il voto vero, libero e democratico. “Non credevamo di riuscire a manifestare per così tanto tempo, all’inizio avevamo pensato di fare quattro, cinque giorni di occupazione e invece siamo rimasti in piazza per più di due mesi, una grande dimostrazione di cittadinanza attiva”.

Ieri al Teatro Regio, uno degli appuntamenti di Biennale Democrazia, ha ospitato Benny Tai, docente di Giurisprudenza all’Università di Hong Kong e “ideatore” di “Occupy Central with love and peace”, al tavolo insieme al direttore de La Stampa, Mario Calabresi e allo studioso di crimine internazionale, Federico Varese.

Così il professor Tai, davanti a una numerosa platea, ha raccontato l’impresa della grande “occupazione per la democrazia” che, dal 28 settembre 2014, ha bloccato Admiralty, la zona più ricca della città, nelle vicinanze del palazzo del governo.

“Secondo la nostra Costituzione ‘Basic Law’ – ha spiegato il professore – i cittadini sono costretti a votare i candidati al Parlamento, nominati dal capo del governo, definito “chief executive’ proprio come un capo d’azienda. Quindi un voto non democratico, che impedisce di eleggere persone sgradite a Pechino”.

“Così a gennaio 2013, venti mesi prima dell’occupazione, scrissi un articolo in cui sostenevo l’idea che diecimila persone avrebbero dovuto occupare pacificamente le strade, di fronte a un governo sordo alle richieste di elezioni libere e democratiche. Ma non era una chiamata alle armi”. “Eppure – ha continuato – quell’articolo ha trovato l’interesse di tanti cittadini e associazioni che erano d’accordo a muoversi per farci ascoltare dal governo”.

Da allora per diversi mesi si sono tenuti i “deliberative meetings”, incontri dove i cittadini si riunivano e discutevano su come organizzare la protesta. Da quelle assemblee è scaturita la proposta delle ‘citizen nominations’, secondo cui i cittadini avrebbero potuto scegliere i candidati che, se avessero raggiunto le firme necessarie, avrebbero potuto candidarsi. Ma Pechino rifiutò.

“E così abbiamo deciso che il primo ottobre, giorno di festa nazionale, saremmo scesi in piazza, nel centro di Hong Kong, per fare un’occupazione di quattro giorni. Il 28 settembre, però, un gruppo di giovani ha tentato di accedere ai palazzi del governo, la polizia ha sbarrato la strada ed è accorsa così tanta gente, migliaia di persone, che è iniziata in anticipo e spontaneamente l’occupazione”.

“A portare avanti la protesta erano persone di tutte le età, trainate dai ragazzi delle scuole e delle università. Tutti insieme abbiamo resistito anche alle aggressioni delle forze dell’ordine che invano tentavano di sgomberare la piazza”.

“Sono intervenute anche le mafie, le Triadi, assoldate dal governo per usare violenza sui manifestanti – ha precisato Tai -. Una sera mi ha fermato un signore, membro della mafia, e mi ha detto: ‘Professore devo confessarle una cosa, i boss mi hanno offerto denaro per picchiare i manifestanti, ma io mi sono rifiutato perché sto dalla vostra parte’”. “Le mafie in Cina hanno un debito con il governo che gli concede appalti e favori”, ha ribadito Tai.

Federico Varese che è stato a Hong Kong per studiare da vicino il movimento ha portato la sua testimonianza: “Vi assicuro che ancora mi emoziono a pensare a quel movimento. Sono andato a Hong Kong a fine ottobre con una mia ex studentessa che insegna lì all’università. Ho visto tantissimi, giovani e non, con le tende in strada e le icone di John Lennon e Hannah Arendt. E’ incredibile come tutte quelle persone abbiano resistito con tanta tenacia alle violenze della polizia e delle mafie”.

Ora, a cinque mesi da quella grande manifestazione di democrazia e di civiltà, si attende che il governo faccia la sua mossa. “Un terzo dei parlamentari sono dalla nostra parte – ha proseguito Tai – e per approvare la riforma elettorale ne servono due terzi, per cui stiamo facendo un grande lavoro per convincere un terzo più quattro di loro, altrimenti Pechino avrà vinto”.

Infine un aneddoto: “Pochi giorni fa centinaia di ragazzi sono tornati ad Admiralty e sono stati per 79 secondi in silenzio, per ricordare i giorni di occupazione. Alla fine una ragazza ha detto che era nostro dovere ricordare quella protesta e che dobbiamo continuare a batterci con ostinazione e con mezzi pacifici per ottenere, finalmente, la democrazia. Forse siamo dei sognatori, ma noi ci crediamo e andremo avanti. Proprio John Lennon cantava, ‘You may say, I’m a dreamer, but I’m not the only one’”.

Saskia Sassen e la ridefinizione delle categorie socio-economiche

Saskia Sassen e la ridefinizione delle categorie socio-economiche

Saskia Sassendi Maria Teresa Giannini (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

Rompere gli schemi, con sana lucidità accademica, ma comunque romperli. Queste le parole d’ordine di Saskia Sassen , impegnata a rivisitare alcune categorie della realtà che gli economisti hanno appiattito a dispetto della loro continuo trasformarsi. Docente della Columbia University e co-direttrice del Comitato sul Pensiero Globale, Saskia Sassen è titolare della prestigiosa cattedra che fu di Robert Lynd, studioso della globalizzazione: “The mobility of labour and Capital”, “The global city”, “Territory, Authority, Rights”, sono un inno all’intreccio delle scienze sociali.

In contemporanea all’uscita del suo nuovo libro, “Expulsions”, la sociologa olandese è stata ospite di   Biennale Democrazia presso la Sala della Cavallerizza Reale, dove ha inquadrato a suo modo i concetti di crisi ed emarginazione, in un mondo dai confini labili.

“Se escludiamo banche o imprese, scopriamo che l’idea di crisi è in realtà perfettamente contemplata nella finanza. In quell’ambito i sistemi nazionali non rappresentano affatto una frontiera e i modelli che abbiamo utilizzato fino ad oggi non funzionano”.

Su un Prodotto Interno Lordo stimabile intorno ai 54 trilioni di dollari nel 2008 (una cifra esorbitante, tenendo anche conto che solo nel 2001 si aggirava sui 919 miliardi), il volume di denaro mosso dalla finanza ammontava a 62,2 trilioni di dollari.

“Siamo davanti alla dimostrazione che non c’è PIL che tenga: qualsiasi esso sia, l’attività finanziaria lo supererà. – spiega la professoressa –. Si tratta di un innegabile miracolo umano, una forma dcreatività in un certo senso, che si traduce però sempre di più in una capacità negativa, poiché questa enorme massa di denaro distorce realtà fisiche, urbane e sociali”.

Con dovizia di dati e grafici, Saskia Sassen illustra i danni provocati dalla bolla dei subprime, i prodotti finanziari derivati dalla scomposizione di mutui: 13 milioni di senza tetto e un calo dal 70% al 30% del totale di proprietari di casa. “Chi ha sottoscritto quei mutui è stato tratto in inganno dalle condizioni vantaggiose propostegli, ammettiamolo, da abili venditori. Le banche hanno spinto i clienti a sottoscrivere contratti e non pagare nulla durante i primi cinque anni per degli immobili, costruiti dal nulla, che già nascevano con un basso valore e che, al momento di funzionare come garanzia per la solvibilità, si sarebbero deprezzati ”.

Lo spaventoso bilancio si arricchisce però di dettagli interessanti quando si guarda dove il denaro è stato riallocato. Gli investimenti hanno rimpinguato aree del pianeta già molto dinamiche, come Amsterdam (+248,3%) o Shangai (+150 %). In alcuni casi, come la Grande Mela, si è trattato di un aumento di investimenti interni, mentre in altri, come la City londinese, si è registrato un incremento dei flussi provenienti dall’estero (+40). “La finanza tenta sempre di cannibalizzare tutto ciò che può. Le grandi compagnie comprano interi settori manifatturieri, edifici o pezzi di territorio: si pensi che i ricchi del Qatar posseggono più zone di Londra della Regina d’Inghilterra – ironizza la sociologa –. “Sottratti spazi alla normale vita cittadina, la densità abitativa è quindi aumentata, portando con sé tutti i problemi legati alla compressione fra persone con esigenze diverse. La domanda dei cittadini quindi sorge spontanea: chi siamo, che ruolo abbiamo noi in questo tempo? Possiamo ritagliarci uno spazio in cui essere determinanti?”

E’ qui che Saskia Sassen si dice interessata da quanto sta accadendo in Grecia: “Mi piace molto l’approccio di alcuni movimenti politici in Europa, come Podemos o, ancor meglio, Syriza: per loro tutte le componenti sociali del paese contano. Quella di Tsipras e dei suoi è una logica redistributiva del reddito, di ‘pulizia fiscale e finanziaria’, che naturalmente si oppone alla fiducia cieca nel servilismo delle Big Companies e all’aspettativa pura di un rendimento, a scapito del terreno bruciato che lascia alle spalle”.

Il confronto sarà lungo ma di una cosa si può esser certi, secondo la professoressa Sassen: “Non c’è modo che la Grecia, o qualsiasi altro paese sia in grado di accendere i riflettori sulle battaglie per l’uguaglianza sociale, diventi un Invisibile”.

Finalmente il finimondo: un passaggio di sola andata

Finalmente il finimondo: un passaggio di sola andata

Finalmente il finimondodi Sabrina Colandrea (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

Il sorriso dissacrante di “Finalmente il finimondo. Un passaggio di sola andata”, in scena ieri al teatro Regio, alla fine ha travolto tutti. La catastrofe, l’apocalisse, il disastro, la nemesi e l’estinzione: a tu per tu con le paure ancestrali dell’uomo, nel confronto condotto da Federico Taddia e il filosofo della Scienza Telmo Pievani, intervallato dai siparietti musicali della Banda Osiris, sorprende vedere con quale naturalezza la logica dell’istinto umano più resistente, quello alla sopravvivenza, lascia spazio alle incontrollabili risate del pubblico.

“Nella nostra civiltà, come in qualsiasi altra cultura, passata o presente, la fine del mondo è un tema ricorrente”, dice Pievani. “L’hanno prevista i popoli antichi, la Bibbia, i pensatori di tutte le epoche, giustificando l’errore davanti alla propria comunità con un ravvedimento inaspettato degli dei”.

“Così è successo ai Maya. Il vero motivo per cui hanno rinviato la fine del mondo è che Bruno Vespa non aveva ancora finito il plastico della Terra”: l’intervento di Taddia è il preludio all’ingresso sulla scena della Banda Osiris, che, con la versatilità dei suoi fiati e le scenette da cabaret, porterà ogni volta una ventata di freschezza al discorso.

“Romanzi e film di fantascienza hanno provato a raccontare delle catastrofi naturali chiamando in causa eroi e finali mozzafiato, in cui l’ordine delle cose si ristabilisce”, riprende Pievani. In questo genere di produzioni, non può mai mancare la fuga in automobile. I quattro musicisti allestiscono su richiesta allora un “trailer” improvvisato, in cui recitano la parte dei protagonisti alla guida di uno sgangherato mezzo di trasporto fatto di strumenti musicali.

Il mondo non ha mai smesso di finire

“Non saremmo qui se il mondo degli altri non fosse finito”, prosegue il filosofo. “Ogni volta che finisce un mondo ne nasce un altro. Il dominio dei mammiferi termina con lo schianto di un gigantesco meteorite e la lunga notte del Cretaceo a cui non sopravvivono i dinosauri. Chi sopravviverà alla nostra notte? La nuova minaccia per la Terra e le sue specie viventi non è un asteroide, ma l’uomo”. Nella sesta estinzione di massa, per la prima volta, la perdita della biodiversità sarà causata da una sola specie.

Per stare bene abbiamo bisogno di stare male

Pensare di trovarsi alla fine di un processo, pensare di non essere dispersi nel flusso indistinto della Storia è il motivo per cui ogni civiltà umana ha pensato di dover fare i conti con la fine della propria esistenza. “Immaginarsi al termine di un fenomeno equivale a ritagliarsi una prospettiva esclusiva. La fine del mondo ha perciò, paradossalmente, una valenza rassicurante. Il terremoto di Lisbona del 1755, in cui morirono decine di migliaia di persone, costituì in questo senso uno sconvolgimento per illuministi come Rousseau e Voltaire”.

La Banda Osiris riacquista il centro della scena giocando sull’equivoco basato sul nome dei due filosofi, “Voltare”, “Russare”. Dall’iniziale botta e risposta con Pievani, nasce un brano incentrato sullo stesso meccanismo distorsivo che fa il verso ad altri illustri pensatori.

“Giustizia distributiva e ridistribuitiva, questo il significato originario del termine ‘nemesi’”. Protagonista di un aneddoto sul fisico Enrico Fermi che, durante un incontro tra scienziati, osservò che, su miliardi di galassie presenti nell’Universo, dovevano esistere almeno un centinaio di pianeti con forme di vita più sviluppate. Alla sua domanda ‘perché non sono entrati in contatto con noi?’. La risposta, che non seppero dare gli altri, la diede lui: ‘Perché quelli che avrebbero potuto farlo sono già estinti’. “Un alieno tanto evoluto da riuscire a mettersi in contatto con noi, per Fermi, era sicuramente un alieno estinto. Questo perché l’eccessivo sviluppo di un sistema lo porta all’implosione”.

“Stai sereno. Se Renzi ti si avvicina e ti dice così è segno che la fine del mondo è imminente”, stuzzica il pubblico Taddei. Che poi rincara: “E se la fine del mondo fosse domani? Ci saremmo liberati della nuova riforma della Rai”.

“Siamo programmati per estinguerci secondo Darwin. L’estinzione è l’altro lato dell’evoluzione perché genera spazio e, in generale, le condizioni per lo sviluppo di nuove forme di vita. Così, se all’epoca dei dinosauri, i mammiferi più grandi erano dei roditori e nessuno avrebbe scommesso su di loro, la loro capacità di adattarsi ai cambiamenti e ai rovesci della vita ha orientato la linea evolutiva verso un’altra direzione”.

“Se ora siamo in quattro a ballare l’Alli Galli…”. L’immancabile ritorno del quartetto comico trae spunto dalla riflessione del filosofo per simulare la progressiva estinzione delle specie.

Lo spettacolo si chiude cercando di trovare un senso al ripetersi ciclico della fine del mondo, del suo senso più profondo. Che cos’è l’Apocalisse davvero? È il luogo dove si rivela il senso della Storia, dove tutto finisce per poi ritornare a esistere sotto una diversa forma.

 

Chi decide cosa vediamo sui social?

Chi decide cosa vediamo sui social?

Social networkdi Antonella Capalbi (www.digi.to.it)
Che la Rete costituisca il più grande contenitore di informazioni prodotto e fruito da un’umanità sempre più affamata di notizie è cosa nota. Cosa un po’ meno nota, a dire di Fabio Chiusi – freelance e moderatore dell’incontro tenutosi ieri presso il Teatro Gobetti sul tema del controllo dell’informazione sui social network – è che questa grande mole di informazioni è spesso fruita in maniera poco autodeterminata e molto etero diretta.

Ma chi è a capo di questa etero direzione? In altre parole, chi controlla cosa visualizziamo in Rete e quali notizie fruiamo? E’ stato questo il fil rouge dell’incontro che ha visto gli intereventi di due esponenti di quella parte del mondo accademico impegnata a fare luce sulle zone d’ombra della libertà in Rete: Antonio Casilli, professore di Digital Humanities al Paris Institute of Technology e ricercatore in Sociologia al Centro Edgar Morin di Parigi, e Sara Bentivegna, titolare della cattedra di Comunicazione Politica alla Sapienza di Roma. I due docenti, partendo da un’analisi sociologica e tecnica dei principali regolatori della fruizione dell’informazione, gli algoritmi, si sono addentrati in un tema tanto attuale quanto spinoso: il controllo della Rete.

La grande mole di informazioni in Rete

La professoressa Bentivegna ha tracciato in maniera molto significativa i due fattori principali che hanno permesso e permettono tuttora a gran parte della società di affidare una grandissima mole di informazioni personali a un contenitore tanto impersonale quanto vivo come la Rete.

Figli di un contesto che ha visto lo strapotere dei media tradizionali e dei loro filtri relativamente all’informazione, i cosiddetti “nativi digitali” (per Casilli definizione abusata e da scardinare) si sono approcciati al banchetto di informazioni offerte dalla Rete come dei naufraghi approdati finalmente nelle lande della possibilità di conoscenza non filtrata e a portata di mouse. E di lande inesplorate in effetti stiamo parlando perché, secondo l’opinione di Bentivagna, proprio questa fame di informazioni e di conoscenza democratica ha permesso l’affidamento cieco alle logiche di un “paese dei balocchi” così ospitale da non far porre domande su quale potesse essere il costo del biglietto d’accesso: un costo che si è tramutato nel passare da produttori di contenuti e fruitori di prodotti a prodotti stessi.

Gli algoritmi

Nella spiegazione tecnica fornita da. Casilli relativamente al funzionamento degli algoritmi – strumenti che permettono un’organizzazione del grande flusso di contenuti quotidianamente offerto dalla Rete – è emerso quanto nella visualizzazione di ciò che ogni utente fruisce vi siano delle logiche altre, gestite da soggetti che ondeggiano tra la necessità effettiva di operare una selezione dei contenuti e la volontà di operare una manipolazione di quegli stessi contenuti.

E’ recente il caso di sperimentazione empirica strutturato da Facebook su 7.000 utenti, a cui sono state sottoposte informazioni con contenuti prevalentemente positivi per sperimentare quanto la fruizione di quei contenuti potesse manipolare l’umore e le decisioni degli utenti stessi. Allo stesso modo è stato osservato come il fatto che Facebook faccia visualizzare più contenuti di argomento politico possa far aumentare la partecipazione al dibattito pubblico del 3% e come, quindi, la gestione dei contenuti virtuali possa avere effetti in un ambito reale, privato o pubblico che sia.

Un nuovo concetto di spazio pubblico

Sullo spazio pubblico come concetto reinventato dalla nuova dialettica virtuale si è incentrata l’ultima parte dell’incontro. Come ha sottolineato Bentivegna, la pluralità di informazioni offerta da Internet ha permesso la creazione di diversi spazi di discussione spesso interconnessi ma che contemporaneamente spesso risultano slegati, dal momento che il sistema di selezione operato dagli algoritmi si basa sul far visualizzare a utenti “simili” contenuti “simili”.

I risultati della discussione che avviene in questo arcipelago di nuovi spazi pubblici, quindi, dovrebbero essere fatti confluire in uno spazio pubblico generico, che la docente universitaria ha pensato di individuare nei media tradizionali e generalisti. La loro funzione potrebbe essere reinterpretata alla luce di questa necessità di dialogo tra spazi di discussione virtuali sempre più numerosi all’interno di un territorio che, nelle battute conclusive di Chiusi, viene fatto passare sempre più come la terra in cui l’anonimato costituisce lo stato naturale delle cose e in cui invece il controllo ne rappresenta una cellula primaria non sottovalutabile.

Il tempo della vita e il tempo della storia per Francesco Piccolo e Michela Murgia

Il tempo della vita e il tempo della storia per Francesco Piccolo e Michela Murgia

Il tempo della vita, il tempo della storiadi Claretta Caroppo (www.digi.to.it

La riflessione sulle modalità con cui impegni e attività quotidiane si intrecciano con le problematiche della società è il motore de “Il tempo della vita, il tempo della storia”, incontro del quarto giorno di Biennale Democrazia coordinato da Armando Massarenti, direttore del supplemento culturale Domenica del Sole 24 ore, che dialoga intorno al tema con la scrittrice Michela Murgia e lo scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo. 

Massarenti ricorda come già il premio Nobel Amartya Sen avesse sottolineato quanto la libertà individuale costituisca di per sé un impegno sociale, e come un secolo prima John Stuart Mill avesse messo in evidenza la relazione tra espressività individuale e bene comune. 

Scrittura come impegno sociale

Massarenti dialoga con Murgia e Piccolo sull’espressività dell’artista legata alla politica e al bene comune. 

Per l’autrice “non esiste distinzione tra il fatto di essere scrittori e avere a che fare con il bene comune, poiché la scrittura, attraverso la pubblicazione e la diffusione, è un atto politico, che ha effetti collettivi”. La sua esperienza come candidata per la Regione Sardegna e soprattutto quella di Lìberos – associazione fondata con Aldo Addis, Giannina Canu, Francesca Casula, Pier Franco Fadda, Daniele Pinna e Sarah Poddighe e che promuove il libro e le sue declinazioni quali forme di educazione sociale, ricchezza economica e consapevolezza civica – l’hanno portata a battersi per il proseguimento di un’identità narrativa sarda, a creare percorsi partecipativi. 

Analogamente, Piccolo pensa che esista un modo di fare scrittura che utilizza le pagine come strumento di impegno sociale e di partecipazione, declinato anche nel quotidiano (come teorizzava Sartre) e un altro, più distaccato ma egualmente legittimo, che analizza la realtà con un focus più esterno. 

Lo scrittore e l’uomo

Il dialogo prosegue con una riflessione sul rapporto tra scrittura e personali vicende dell’autore di un testo, che diviene pubblico personaggio. Per Piccolo “si fa troppa confusione tra creatore e creato” e se è vero che le vicende personali legate alla biografia di un autore potrebbero deludere o indisporre il lettore, allora la soluzione è quella di concentrarsi sulle sue opere. 

Michela Murgia ribatte sostenendo che l’attenzione dedicata alla corporeità di un autore è diventata qualcosa di indispensabile in quest’epoca, poiché “non è più il tempo in cui quello che scriviamo ci succederà, e una certa ostensione è necessaria, come noi, che siamo qui non a leggere i nostri libri, ma a dialogare su idee di narrazione». 

L’ironia

Nel passaggio da sfera privata a sfera pubblica, l’ironia rimane una valida alternativa: vengono citati in proposito Alberto Sordi e Renzo Arbore e Michela Murgia propone una nuova considerazione della figura dell’intellettuale, “non più con gli occhialetti, ma con il grembiule”, mentre Francesco Piccolo ricorda come ironia non sia “ridere di qualcosa che si disprezza, ma ridere tra pari o, meglio, di se stessi”. 

A proposito di ironia, il pubblico partecipa all’incontro con coinvolgimento, dialogando con i relatori, talvolta confondendone i nomi, e così Michela Murgia diventa “la signora Piccolo”, quasi a riprendere quel filo del discorso sul rapporto tra prodotto letterario e biografie di un autore. 

All’inizio dell’incontro Armando Massarenti aveva stuzzicato il pubblico in sala accennando a un racconto scritto da Francesco Piccolo che unisce la sfera individuale e quella sociale e che, nel suo dispiegarsi, coinvolge la madre, un ristorante e Giorgio Napolitano. Al termine delle domande il pubblico ha potuto ascoltare l’evoluzione – davvero ironica – di questa storia e, per tutti coloro che non fossero stati presenti all’incontro, si rimanda alla lettura nuovo romanzo di Piccolo, “Momenti di trascurabile infelicità”. 

Generazioni a confronto: una sfida all’ultima rima

Generazioni a confronto: una sfida all’ultima rima

Una sfida all'ultima rimadi Sabrina Colandrea (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

“Perché la storia possa essere tramandata è necessario che sia tradita”. La chiave di lettura dello spettacolo “Generazioni a confronto, una sfida all’ultima rima” l’ha data Antonio Damasco, direttore dell’associazione “Rete italiana di cultura popolare”, nel presentare al pubblico i protagonisti: Pietro De Acutis e Paolo Santini, due poeti-improvvisatori arrivati da Borbona, un piccolo comune in provincia di Rieti in cui ogni anno, a metà settembre, si svolge il “Festival di canto a braccio”, e tre rapper provenienti da diverse zone d’Italia, Principe, Plaste e Kento.

‘Tradire’, nella sua accezione originaria, significa ‘consegnare’. Pur nascendo oltreoceano, l’hip hop si è imbevuto della tradizione totalmente italiana della “poesia a braccio”, delle sue rime e della sua metrica rigorosa e ne è uscito arricchito. A giudicare dal titolo dell’evento, sul palco del Piccolo Regio si sarebbe dovuta consumare una sorta di sfida tra poesia estemporanea e freestyle. Ciò cui il pubblico ha assistito, però, somigliava piuttosto a un intreccio gradevolissimo di voci e sensibilità, non troppo diverse tra loro. Nessun tradimento dell’hip hop nei confronti della poesia improvvisata, piuttosto un arricchimento reciproco.

Ma cos’è la poesia a braccio? Non sono in molti a saperlo, sebbene si tratti di una tradizione millenaria. Al contrario, tanti spettatori hanno mostrato di conoscere la disciplina del freestyle. Come ha spiegato Paolo, uno dei poeti: “Improvvisiamo sempre sulla base di un tema e secondo l’ottava che usò Ariosto ne “L’Orlando furioso”. 8 endecasillabi rimati, i primi sei a rima alternata, gli ultimi due a rima baciata, diversa da quelle dei versi precedenti, ma uguale a quella del primo dell’ottava successiva. Se facciamo un errore gli ascoltatori delle nostre parti, che sono molto attenti, ci rimbrottano”.

Poesia e hip hop si sono avvicendate sul palco anche sulla base di suggerimenti provenienti dal pubblico. Il primo tema proposto è stato “Costituzione” e ha avuto esiti sorprendenti. Come il rap di Kento: “Ehi, il primo articolo già da solo è un tesoro. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Il primo articolo ti dice in abbondanza, il terzo articolo è il principio di uguaglianza. E che lo sappia tutta la terra: l’articolo 11 ripudia la guerra. Sì, sopra il beat una nuova: l’articolo 21, la libertà di parola. Sopra il beat è improvvisazione: cinque persone, sana e robusta costituzione”. Cui ha fatto eco la poesia a braccio di Paolo: “Quando il Paese finito è ridotto, da quella guerra sì tanto pesante, nuovo pensiero venne, nuovo motto: l’Italia voleva andar distante. Tanto lavoro allor, a testa in sotto, una Costituzione sì gigante, che ancora resta alla vecchia maniera, quando l’Italia era l’Italia vera”.

Da un argomento tanto alto si è passati al “motomondiale” di Principe: “Brum brum, mi metto in moto. Parlo di motomondiale, mi spiace ma io sono solo per la Nazionale”. Ma, visto che le gare di freestyle, proprio come quelle di poesia a braccio, spesso muovono dalla difesa di due argomenti in contrasto, Damasco ha incitato il pubblico a fare ancora una proposta. Qualcuno ha urlato “uomini contro donne”. Ne sono scaturiti momenti comici, come il “gioco di ruolo” in cui Paolo è diventato l’amante di Principe. Memorabile il verso dissacrante, rivolto al rapper: “Con quell’attivo tu conti balle perché t’ho conosciuto ch’eri di spalle”. Di tutt’altro genere, invece, l’atmosfera creata dal contrasto “amore-morte”, su cui hanno duellato i due poeti, concludendo: “però la morte ci faccia un favore, ritardi un poco e viva l’amore”.

Al termine dello spettacolo, Pietro e Paolo hanno voluto ricordare Virginio Di Carmine, improvvisatore scomparso di recente, recitando la poesia “Monti della Laga”. Versi accorati e commoventi, concepiti da un pastorello non scolarizzato, ma divoratore di libri: “tutto quanto è in voi parla d’amore, i gocciolanti muschi marcescenti, i rii impetuosi, l’umili sorgenti, i bei narcisi, le ginestre in fiore”.

Una Magna Charta per Internet

Una Magna Charta per Internet

1di Veronica Minniti (www.digi.to.it)

Al giorno d’oggi risulta chiaro che Internet sia fondamentale nelle vite di tutti noi: serve per informarci liberamente, per studiare, per metterci in contatto con altre persone magari lontanissime da noi a costo zero. Ormai, come ha detto Juan Carlos de Martin – uno dei relatori della conferenza organizzata ieri alla Cavallerizza e professore al Dipartimento di Automatica e Informatica del Politecnico di Torino (dove ha co-fondato e co-dirige il Centro Nexa su Internet e Società) – “chi non ha accesso alla Rete sta progressivamente diventando un cittadino di serie B”.

Il dibattito, che ha presentato il progetto Magna Charta per Internet, si è posto l’obiettivo di dare una risposta ad alcune domande: come consentire a tutti l’accesso alla rete? Come garantire che i diritti umani fondamentali siano adeguatamente tutelati anche online?

Un problema “giovane”

Come ha sottolineato De Martin, d’accordo con l’altro ospite presente, Philippe Aigrain (informatico, economista e scrittore francese), l’idea di formulare una Magna Charta relativa a Internet è per l’Unione Europea qualcosa di molto recente: solo nel 2014 infatti il dibattito su queste tematiche è arrivato nel vecchio continente, ed è in questo anno che sono state fatte le più importanti iniziative in merito. Perché è necessario un documento di questo tipo, dunque? Perché, come ha detto De Martin, Internet non è intrinsecamente libero: è plasmato da precise scelte economiche e politiche. Pertanto è necessario identificare e successivamente tutelare i diritti in Rete, per evitare che prevalga la legge del più forte. 

L’Italia, su iniziativa del Presidente della Camera Laura Boldrini, ha istituito una commissione di studio (di cui fanno parte anche lo stesso De Martin e Stefano Rodotà) formata da parlamentari ed esperti, che ha il compito di identificare diritti e doveri di Internet. 

Al momento sono stati prodotti 14 punti (fra cui diritto di accesso, tutela dei dati, anonimato, oblio, inviolabilità dei sistemi e domicili informatici, sicurezza sul web, criteri per una governance), ma chiunque può proporre modifiche e commentare al fine di migliorarli. “Il passo successivo della commissione – ha detto de Martin – sarà fare un’analisi dei contributi, per poi arrivare alla stesura di un documento definitivo e trasformarlo in una dichiarazione. Una volta istituita la dichiarazione occorrerà tradurla in leggi, sia ordinarie sia costituzionali, ed estenderla a livello europeo e internazionale”. 

Forse non tutti sanno, infatti, che esistono Paesi in cui Internet non è libero.

Il pensiero di Rodotà

Alla conferenza avrebbe dovuto essere presente anche Stefano Rodotà, che però ha dovuto dare forfait a causa di un incidente; data l’importanza che riveste per lui questo tema, il suo contributo al dibattito è arrivato comunque tramite un video mostrato ai presenti. 

Nel filmato il giurista ha voluto sottolineare che Internet è solo apparentemente libero, ma che in realtà è ben controllato – non necessariamente in modo democratico – da grandi soggetti privati, dalle pubblicità. Perché si mantenga libero, invece, è necessario che siano poste delle regole. Contrariamente a quanto si possa pensare, infatti, le regole non sono un limite alla libertà, ma sono quel qualcosa che può aiutare a mantenerla. 

È necessario, infine, che tutti gli utenti siano attori attivi in questo processo: “Le carte di per sé non sono efficaci se non siamo innanzitutto noi a impegnarci perché questi diritti vengano fatti valere”.

Donne contro la ‘ndrangheta


Donne contro la ‘ndrangheta


Lotta alla 'ndranghetadi Antonella Capalbi (www.digi.to.it

Come mi capita di dire da qualche tempo ormai, è un fatto che l’antimafia sia donna. Sono queste le parole scelte da Nando Dalla Chiesa per l’incipit del suo intervento al dibattito tenutosi ieri al Circolo dei lettori sul tema della lotta alla ‘ndrangheta di matrice femminile organizzato da Unilibera. Docente di Sociologia della criminalità organizzata presso l’Università degli Studi di Milano e figlio di una delle vittime di quella stessa criminalità, il Generale Dalla Chiesa, nel corso del suo intervento ha a lungo sottolineato il ruolo sempre più preponderante della parte femminile della società nella lotta alle mafie: una lotta che per contesto e tempo di appartenenza si è collocata sempre sul versante maschile ma che, se è vero che è stata condotta da giudici, pm e questori, è stata anche il prodotto di un’attività di ribellione silenziosa ma non meno importante a opera delle insegnanti nelle scuole, delle studentesse e ricercatrici sempre più interessate al tema nelle università e, naturalmente, di quelle figure femminili chiave che hanno deciso di uscire dal contesto mafioso di riferimento.

Sono state queste le storie protagoniste dell’incontro in cui Marika Demaria e Manuela Mareso, due autrici con provenienza e formazione diversificata, hanno tratteggiato le vite di due donne distanti per certi aspetti ma accomunate da un unico incoraggiante, e allo stesso tempo terribile, comune denominatore: la decisione di testimoniare contro il mondo di sottomissione e criminalità di cui sono state prigioniere, firmandosi di fatto la condanna a una vita sempre più somigliante a una fuga.

La scelta di Lea
La prima storia, oltre che tra le pagine della narrazione letteraria, è quella portata all’attenzione del grande pubblico da Marika Demaria nel suo La scelta di Lea, libro-inchiesta sulle tappe della persecuzione subita da Lea Garofoalo e dalla giovane figlia Denise dopo la scelta di allontanarsi dall’ambiente criminale di appartenenza in Calabria, conclusasi con il cruento omicidio della protagonista da parte del marito, boss mafioso e carnefice, perpetuato con la combustione dei resti della donna dispersi nella campagna brianzola.
A detta stessa dell’autrice, è una storia di dettagli cruenti e di violenza carnale, ma anche di solitudine, fragilità e allontanamento: quegli stessi dettagli che è bene portare all’attenzione del grande pubblico perché ci si renda conto di quanto coraggio può e deve accompagnare una scelta di non sottomissione a logiche atroci ma percepite come comuni nel contesto di appartenenza.

La storia di Lea Garofalo, come lo stesso Nando dalla Chiesa ha sottolineato, è una storia milanese perché legata alla vana speranza che in un ambiente lontano potesse esserci profumo di libertà e non il puzzo di una prigionia conclusasi con la nauseante conferma che da origini del genere sia difficile uscire, perché la ‘ndrangheta non dimentica.

“Loro mi cercano ancora”
La ‘ndrangheta non dimentica e loro mi cercano ancora: sono queste le parole utilizzate da Manuela Mareso nel suo Loro mi cercano ancora, versione in prosa della vicenda di Maria Stefanelli, altra figura femminile che dopo anni di soprusi, sottomissioni e violenze, ha trovato la disperazione necessaria per tirarsi fuori da un contesto che continua a perseguitarla in quanto testimone sotto protezione nel processo Minotauro, procedimento giudiziario ancora in corso sull’infiltrazione mafiosa in Piemonte. 

Qui la partita tra cosche si gioca interamente al nord e non c’è spazio per quella speranza di fuga paventata nella storia di Lea Garofalo, perché è una vicenda di criminalità organizzata di provenienza ancora calabrese ma totalmente strutturata nella nostra regione che, stando all’opinione dell’autrice, oltre ad avere alcuni tratti sconvolgenti, riesce a risultare più volte surreale e ha permesso di mettere in luce le nuove dinamiche organizzative della struttura mafiosa nel settentrione.

In una storia che parte da abusi in ambito familiare e finisce nell’anonimato di chi in una vita sotto copertura ha comunque trovato il paradiso rispetto all’inferno di provenienza, Manuela Mareso ha tratteggiato con onestà e senza ipocrisia lo snocciolarsi di vite spesso meno prevedibili di quello che si immagina, in un contesto caratterizzato non solo da soprusi, potere e forza, ma anche da tanta fragilità, insicurezza e paura sia sul versante maschile che su quello femminile: quella stessa paura che è stata compagna terribile delle protagoniste delle due vicende narrate e che solo le diverse forme di solidarietà e sensibilizzazione messe in atto da una parte della società, femminile e non, possono contribuire ad attutire.

Il solitario Márquez: cent’anni di memoria narrativa

Il solitario Márquez: cent’anni di memoria narrativa

Il romanzo del cambiamentodi Monica Merola (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

“Siamo in piena guerra fredda, da poco c’è la crisi dei missili ed è appena morto un Kennedy. Dustin Hoffman intanto interpreta il Laureato, interpretando una generazione”. Attraverso questi avvenimenti lo scrittore e direttore editoriale di Einaudi, Ernesto Franco, commenta al Circolo dei lettori il 1967 attraverso il libro “Cent’anni di Solitudine”. Il ’67 fu l’anno in cui nacque il capolavoro di Márquez, ma fu anche il simbolo “del vibrante giorno prima” del maggio ’68, ovvero il momento in cui “il mondo cambiò il modo di vedere il mondo”. 

Anche in America Latina la fine degli anni Sessanta sarà cruciale. L’8 ottobre del ’67 viene catturato e mutilato Ernesto Che Guevara. Dall’anno seguente i giovani americani “lo crederanno un contestatore, anche se era molto di più, era un guerrigliero”. Ma in letteratura? In Europa ci sarà un periodo molto fecondo di consapevolezza artistica e narrativa. La voce leggermente gutturale di Fausto Paravidino, attore, drammaturgo e regista, accompagna le riflessioni di Franco con la lettura dell’epopea dei Buendìa e del capofamiglia José Arcadio. Il romanzo, ambientato nella città immaginaria di Macondo, consegna un ritratto delicato e complesso di sette generazioni della famiglia Buendía. “Gli occhi gli si inumidirono di pianto (…) prima di riconoscere nel nuovo venuto un abbagliante fulgore di gioia”. Un  passaggio che apre la riflessione sui racconti brevi di “Cronopios e di Famas”, scritti da Julio Cortazar nel 1962. Per Franco infatti sarebbero potuti essere tranquillamente protagonisti del racconto di Márquez. 

“La forza del romanzo – commenta – è la capacità di disegnare un tempo e un luogo che siano senza tempo”. Moretti scrisse che questo è un modo che Márquez utilizza per “naturalizzare la realtà in cui e’ immerso”.  Uno scrittore contemporaneo ma di conquista. Nel romanzo Arcadio ha 17 figli da 17 donne diverse, e sopravvive a 14 attentati e 73 imboscate, oltre che a una dose di stricnina “che avrebbe ucciso un cavallo”. Per Franco mancherebbe qualcosa al romanzo “se non ci fosse questa numerazione, con l’idea di essere molto precisi nel racconto. Questo trasmette al lettore, infatti, una paradossale idea di caducità e una precisa idea esistenziale. Il passaggio su questo mondo vale la pena proprio perché è solo un passaggio. Non c’è altra verità”. 

A Márquez fu domandato, durante un’intervista televisiva, del realismo magico. Lo scrittore rispose definendosi “un realista triste”, rimarcando la conclusione morale del suo capolavoro, raccontato moltissimo ma forse compreso troppo poco: “Le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avranno una seconda opportunità sulla terra”. 

Leggi gli articoli precedenti
Leggi gli articoli successivi
PRENOTAZIONI UNIVERSITARIE
L'Università di Torino, in collaborazione con Biennale Democrazia, ha stipulato un accordo per consentire la partecipazione alla quarta edizione, istituendo per gli studenti dei propri corsi di studio dei percorsi riservati.
IL TEMA 2015
Il tema della quarta edizione di Biennale Democrazia – che si svolgerà a Torino dal 25 al 29 marzo 2015 - é Passaggi. Passaggi che possono fungere da collegamento fra due luoghi separati da un confine, un muro o una barriera - fisica, mentale o virtuale - ma che possono anche designare delle svolte, delle soglie al di là delle quali il mondo e la percezione che ne abbiamo muta, come accade per le fasi della vita degli individui o per le epoche storiche.
GIOVANI E SCUOLE
Anche quest'anno, Biennale Democrazia offre agli studenti del triennio delle scuole superiori la possibilità di partecipare agli incontri della manifestazione. E' possibile fare richiesta di prenotazione dal 9 marzo alle ore 12 del 16 marzo, inviando una mail al seguente indirizzo scuole.bd@comune.torino.it, indicando: il titolo degli incontri desiderati, la classe, l'istituto, i recapiti telefonici e e-mail dell'insegnante, totale dei partecipanti.
ARCHIVIO MULTIMEDIALE
Oltre 200 ore di grandi lezioni, dialoghi, letture di classici e dibattiti che hanno avuto luogo nelle scorse edizioni di Biennale Democrazia sono adesso disponibili online.