Il potere delle metafore

Il potere delle metafore
Carofiglio

Fotografia di Fabio Miglio

di Sabrina Colandrea (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

“Come possono le parole avere ancora il dono della chiarezza in un mondo complicato come il nostro, in cui non si riesce a stabilire dov’è la ragione e dove il torto?” È partito dalla domanda delle domande, posta da Pietro Marcenaro, il discorso di Gianrico Carofiglio, scrittore, magistrato e senatore, dal titolo “Il potere delle metafore: un approccio linguistico all’etica civile”. 

“È molto più facile essere imprecisi che precisi, molto più facile essere lunghi che brevi”, ha esordito Carofiglio, citando la lettera in cui Blaise Pascal chiede scusa al suo corrispondente per essersi dilungato con queste parole: “Non ho avuto agio di farla più breve”. Conseguire il risultato della chiarezza non è cosa semplice, ma quando a essere oscure sono le lingue del potere non si tratta più solo di una questione stilistica, o retorica, bensì di una questione morale: “Non è moralmente neutro che sentenze, discorsi politici e atti giuridici siano poco comprensibili. Ha a che fare con il tasso di cultura democratica di un Paese”. 

Le metafore sono dappertutto: in letteratura, in poesia, nella pubblicità, nel linguaggio del diritto e, da sempre, in quello politico. Nel 1651 Thomas Hobbes tentò di bandire le metafore dal linguaggio politico, senza successo. “Curioso che una simile proposta sia venuta dall’ideatore di una delle più formidabili metafore politiche di tutti i tempi, quella del Leviatano”.

Riconoscere una metafora non è difficile. È sufficiente prendere in mano un giornale per individuarne diverse, ormai diventate tossiche, ma è difficile darne una definizione. Di solito si prova a spiegarne la natura mettendola a confronto con la similitudine: “Dire ‘La faccia di Cesare era come un cielo in tempesta’ o ‘La faccia di Cesare era un cielo in tempesta’ non è la stessa cosa. L’assenza del ‘come’, quel piccolo salto produce un drammatico scarto di senso”, ha spiegato Carofiglio. La metafora non è solo la figura retorica più potente, è una forma del pensiero, capace al contempo di evocare emozioni profonde e di incrementare la comprensione dell’ascoltatore. 

In politica viene spesso usata nel modo peggiore, ovvero per manipolare l’elettorato. Uno degli esempi meglio riusciti in questo senso è lo “scendere in campo” berlusconiano. Nel famoso discorso del 26 gennaio 1994, Berlusconi ha fatto un uso sapiente anche dell’allitterazione. “Diceva: ‘Ho scelto di scendere in campo’. ‘Scelta’ è una parola nobile, che nobilita tutto ciò che segue. Berlusconi è stato geniale perché poche volte gli italiani si sono sentiti uniti come durante le partite della Nazionale, come nel gridare ‘Forza Italia’. Per tantissimi elettori, il suo linguaggio calcistico ha fatto la differenza”. Poco importa che fosse una metafora-strumento di manipolazione, fine a se stessa. 

La metafora politica, però, può avere uno scopo diverso da quello commerciale-mediatico di Berlusconi, decisamente più nobile. Può mettere in moto il cambiamento della società, chiamando in causa emozioni viscerali positive. Carofiglio ha ricordato lo slogan della campagna presidenziale di Obama del 2008, “Yes, we can”, originariamente collocato in un discorso metaforico, che recita: “Sì, possiamo. Fu sussurrato da schiavi e abolizionisti mentre tracciavano un sentiero per la libertà”. Un discorso simile mette in moto la parte migliore di chi ascolta e commuove anche chi è estraneo alla storia americana. “In Italia lo slogan di Obama è diventato ‘Si può fare’. Dal ‘sì’ affermativo, si è passati al ‘si’ impersonale. Dal ‘possiamo’, tutti insieme, al ‘può’… Chi? Uno slogan del genere evoca semmai ‘Frankenstein Junior’. È delirante”. 

Da quest’altra parte dell’oceano, non si vede neppure l’ombra di quel genere di metafore in grado di evocare il lato migliore dell’elettorato. Carofiglio ne ha avute per Bersani, “il peggior costruttore di metafore”, che pure ha votato, e per Renzi, “abile ma poco umile”. “Renzi usa spesso metafore da lavori pubblici, come ‘asfaltare’, ma la più importante, che ha tirato fuori durante un’intervista rilasciata a ‘La Repubblica’, è stata ‘rottamazione’. Era efficace, ma resta da vedere se dietro c’era una dimensione etica, la molla per un cambiamento della società”. 

Per Carofiglio è presto per conoscere il destino di Renzi e del suo armamentario metaforico, ma non depone a suo favore la moltiplicazione ossessiva di hashtag, che tramuta le sue pur efficaci metafore in slogan urlati: “Le metafore che per essere ricordate hanno bisogno di un cancelletto davanti sono metafore dal fiato corto”.

Carofiglio ha salutato il pubblico citando il professor Keating de “L’attimo fuggente”:” Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana”. Il pubblico non gli ha risposto salendo sulle poltroncine del Teatro Carignano, ma con un applauso interminabile sì. 

Gli antidoti alla disinformazione sul web

sofri e menczer

Fotografia di Fabio Miglio

Matteo Fontanone (www.digi.to.it)

Tardo pomeriggio di ieri: la nuovissima aula magna dell’Università di Torino, inaugurata da poco nel complesso della Cavalerizza Reale, apre le sue porte a Biennale Democrazia per un dialogo sulla diffusione della disinformazione nei social media. Coordina il giornalista Luca De Biase, relazionano il direttore del Post Luca Sofri e Filippo Menczer, professore di Informatica e computer science all’Università dell’Indiana, Stati Uniti.

Come chiave di lettura dell’incontro, De Biase chiede di immaginare “il sistema dell’informazione globale come un normale ecosistema, aperto quindi a ogni sorta di inquinamento”. L’altro grande mito da sfatare è quello che vede in Internet il maggiore veicolo delle cosiddette bufale: si poteva fare disinformazione anche in passato, senza per forza ricorrere alle tecnologie moderne. Menczer e Sofri affrontano due diversi aspetti della disinformazione: il primo racconta dei suoi studi sul cattivo uso dei social media, il secondo porta esempi negativi dal mondo del giornalismo.

Gli studi di Menczer sul meme

In Indiana, Filippo Menczer studia da anni la diffusione della disinformazione, le classiche bufale che lui chiama genericamente “meme”. Insieme a un team di scienziati e accademici, ha lavorato a una simulazione basata su diversi algoritmi che analizzano e riproducono la diffusione dei tweet-bufala. I risultati delle simulazioni diventano delle vere e proprie rappresentazioni grafiche: guardandole, emergono delle macroscopiche differenze. 

I grafici cambiano a seconda dell’argomento dei meme: se la bufala riguarda il cantante Justin Bieber, l’immagine avrà una certa forma e certi nodi, se riguarda Barack Obama avrà un’altra forma e altri nodi. Non tutte le bufale hanno poi uguale diffusione: i grafici di Menczer costituiscono un enorme passo avanti nello studio dei trend, proprio perché permettono di trovare antidoti. “Infatti – dice – siamo riusciti a distinguere una volta per tutte i grasshood, ovvero i movimenti spontanei e le tendenze che nascono dal basso, dagli astroturf, dei boot programmati per fingere di essere individui reali e quindi scatenare a tavolino ondate d’indignazione o manipolare i mercati”. 

Quando la case history è sulla tua pelle

La storia di Menczer è particolare perché lui in primis è stato vittima di disinformazione: “Lo scorso agosto siamo stati accusati su Twitter di essere parte di un progetto federale attraverso cui Obama spiava gli americani e attaccava gli account dei conservatori. Ovviamente si trattava di un meme in piena regola, ma pochi giorni dopo la bufala è stata riportata su Fox News, che ha urlato allo scandalo senza il minimo controllo dei fatti. Nonostante in breve tempo sia stato confermato da più fonti autorevoli che si trattava soltanto di una bufala ai nostri danni – continua – la situazione è ulteriormente peggiorata: diverse personalità politiche hanno abboccato al meme, rendendo pubblica la loro indignazione; si è arrivati persino al leader della maggioranza alla Camera”. 

Con il passare delle settimane i caratteri della bufala si sono ingigantiti, tanto che qualcuno è arrivato addirittura a supporre che Menczer avesse il potere, conferitogli da Obama, di cancellare account Twitter a suo piacimento. Tuttora c’è un’indagine in corso.

I progetti futuri 

Cosa si può trarre da una disavventura come questa? La voglia di ripartire e continuare a fare scienza: “Abbiamo pensato che sarebbe bellissimo riuscire a fare una sorta di fact checking automatico con programmi intelligenti, per prevenire le bufale. Stiamo già lavorando a un sistema basato sulle matrici che paragona dati da Wikipedia”. Funzionerà? “In alcuni casi sì, in altri molto meno. È dimostrato che molte persone non sono interessate a controllare la veridicità di un fatto. Se guardiamo il grafico della comunicazione politica su Twitter, notiamo sostanzialmente che i repubblicani comunicano con i repubblicani, i democratici con i democratici. Si tratta di una segregazione spontanea dell’utente: c’è chi le chiama camere di eco, dove uno sente l’eco delle proprie opinioni senza confronto o controllo. Il dato sostanziale è che situazioni di questo tipo alimentano la diffusione delle bufale».

Sofri e il rapporto fra disinformazione e Internet

I primi minuti dell’intervento di Luca Sofri sono focalizzati sul riaffermare il discorso con cui aveva esordito De Biase: “Circola molto un pensiero per cui è Internet il responsabile della nostra disinformazione. Non è vero, ciò che rende confusa la discussione è che veniamo da un sistema di pensiero per cui esistevano il bar e i giornali. Il primo è il posto delle fuffe, i secondi quello da prendere sul serio. Internet è entrambe le cose – prosegue –. Sul web si ha la possibilità di fruire dell’informazione certificata e allo stesso tempo di scrivere una bufala, senza più lo stacco tra notizia e chiacchiera”. Sofri si definisce studioso dei media, indaga come e perché circolano le notizie false sui mezzi stampa, soffermandosi sui pochi antidoti del lettore alle bufale o alle inesattezze. Già, perché “quando leggiamo qualcosa su un giornale quotato siamo subito più convinti, neanche immaginiamo di dover fare un controllo dei fatti”.

 “Notizie che non lo erano”

A questo punto ha inizio una lunga ed esilarante carrellata di informazione negativa in salsa italiana. 

Il j’accuse contro il sensazionalismo furbetto del bel paese arriva forte e chiaro; d’altronde Sofri di notizie false è diventato un esperto: per sei anni ha curato “Notizie che non lo erano”, una rubrica settimanale sulla Gazzetta dello Sport in cui riportava esempi negativi di giornalismo: in sala effetto comico garantito, tanto che tra poco uscirà un libro con la raccolta dei casi più esilaranti. Succede quindi che, secondo i più quotati media nostrani, a Bush viene rubato l’orologio mentre saluta la folla in Albania, addirittura otto milioni di italiani ricorrono all’ipnosi, il ciclista Vito Taccone verrà ricordato per la sua vittoria contro il rivale Mauro Sormano, che in realtà non è un ciclista ma una salita del Giro di Lombardia. “È anche vero – continua Sofri – che leggiamo molte bufale senza avere gli strumenti per smascherarle; ci sono poi quelle volte in cui la bufala in questione riguarda qualcosa che conosciamo bene e allora ce ne rendiamo subito conto”.

Anche Sofri, così come prima di lui ha fatto Menczer, conclude con una riflessione che lascia l’amaro in bocca: “Il tema dei titoli è rilevantissimo. La nostra comprensione del mondo non viene dai giornali ma dai suoi titoli. Già, perché la maggior parte delle informazioni che assumiamo arriva proprio dalla lettura dei titoli, non degli articoli. E in Italia, purtroppo, ci si è dimenticati della corrispondenza tra titolo e testo, si pensa solo a rendere attraente la notizia”.

Memoria e oblio ai tempi di Internet

Memoria e oblio ai tempi di Internet

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di Matteo Fontanone (www.digi.to.it)

Quella del diritto all’oblio è una questione spinosa che, nel mondo digitalizzato del 2015, se mal gestita rischia di assumere le dimensioni di un ginepraio. Se ne è discusso ieri al Teatro Gobetti con il giornalista Luca De Biase e Luciano Floridi, il filosofo inventore dell’infosfera, termine fortunato che designa il gigantesco insieme di informazioni digitalizzate.

Google e il diritto all’oblio

De Biase rompe il ghiaccio con un excursus sui vecchi metodi di assunzione della Fiat, che per vagliare i candidati consultava il parroco del loro paese d’origine. “Google – dice De Biase – oggi ha sostituito il parroco”.

Se nella società odierna il primo biglietto da visita dell’individuo è il search di Google, è giusto porsi delle domande sul diritto alla privacy che l’individuo stesso può esercitare. Opinione pubblica e comunità scientifica iniziano a riflettere quando, nel 2008, il cittadino spagnolo Mario Costeja Gonzalez si rivolge alla Corte Europea per chiedere la rimozione da Google di alcuni link risalenti al 1998, anno in cui gli venne pignorata la casa per debiti non pagati. Nonostante l’avvenuto pagamento, gli articoli e i documenti su di lui rimangono in evidenza nella prima pagina del motore di ricerca. Nel 2014 viene emanata la sentenza della Corte secondo cui tutto quel materiale dev’essere rimosso, applicando di fatto il diritto all’oblio. 

Poche settimane dopo, Floridi è invitato da Google a far parte della commissione privacy e leggi informatiche, con cui studia le soluzioni ottimali alle nuove problematiche che sorgono in quest’epoca di passaggio.

La memoria, un patrimonio collettivo

Secondo Floridi, la distinzione spesso abusata tra vita reale e virtuale non ha più ragione di esistere: “Viviamo in uno stato di compenetrazione ormai totale, sarebbe come chiedersi se l’acqua della foce in un fiume sia dolce o salata”. 

Una riflessione sul diritto all’oblio non può che partire dal concetto di memoria, che non è univoco. Attraverso citazioni puntuali di Shakespeare e riferimenti alla filosofia di Platone, Floridi categorizza diversi tipi di memoria: verde, registrata, di valore, problematica, pesante, procedurale, episodica. La memoria è un bene prezioso tanto quanto lo è il petrolio, con la sola differenza che non crea rivalità né causa guerre: è un patrimonio condiviso che, sulla carta, può appartenere a tutti. La memoria virtuale è un’entità raffinabile e rinnovabile la cui crescita non ha limiti: “Per Hillbert, studioso della California, già nel 2000 il 25% dello scibile umano era in formato digitale. Nel 2013, il 98%”. 

Anche la memoria, tuttavia, comporta dei costi; Floridi prende ad esempio il macrotema degli open data: “Solo quelli del governo americano possono rendere disponibili 3,2 trilioni di dollari ogni anno. Si tratta di un valore enorme, che però comporta delle ovvie problematiche nella sua gestione: ci sono costi di acquisizione, di usabilità dei dati, sicurezza, accessibilità. Senza contare che i dati vanno fatti parlare, quindi dobbiamo aggiungere i costi di analisi, etica e legislazione». 

La questione del diritto all’oblio

La memoria quindi ha un forte valore sociale e un grosso potenziale economico. La sua conservazione è complicata, comporta delle scelte: “Ciò che chiediamo alla memoria è l’apertura verso il futuro, non la stagnazione nel passato”, dice Floridi.

Dopo aver segnato le fondamenta, il filosofo vira poi sul diritto all’oblio: “L’esempio del cittadino spagnolo di per sé è insignificante, ma ha avuto il ruolo di un fiammifero nella polveriera. Il risultato ottenuto è che se un qualsiasi search engine rende visibile un’informazione che non ci piace e gli chiediamo di rimuoverla, ha l’obbligo di prendere in considerazione la richiesta”. 

Tuttavia è solo l’inizio di un lungo percorso, il diritto all’oblio ha in sé ancora diverse problematiche cruciali: “Innanzitutto il grande contrasto tra la privacy e la libertà d’espressione, in questo caso non del cittadino, ma di Google. Sono due principi fondamentali, privacy e libertà d’espressione, di uguale importanza ma che spesso non vanno d’accordo, come il sale e lo zucchero in cucina”. Un altro snodo non trascurabile è legato alla territorialità del diritto: “Mentre con la pace di Westfalia del 1648 la legge ha ottenuto confini geografici ben precisi – prosegue Floridi – su Internet questo è ancora in via di definizione: non essendo uno spazio fisico, nessuna sentenza che lo riguardi può poggiare su una giurisprudenza nazionale”.

Il problema della memoria, e di conseguenza il diritto all’oblio, è stato impiantato dall’Ottocento a oggi in termini di filosofia dell’economia con il termine “possesso”: i miei dati sono miei come mi appartiene una macchina o un oggetto fisico. Floridi sostiene che negli ultimi anni le cose siano cambiate: “La filosofia non è più dell’economia ma dell’identità: i miei dati sono io, mi costituiscono. Se entri nella mia privacy non è come se entrassi a casa mia, stai condividendo parte di me”. 

La dicotomia memoria/oblio è ancora ampiamente dibattuta, un vero e proprio problema aperto. Le numerose domande del pubblico a Floridi, sul finale della conferenza, costituiscono di per sé un indicatore dell’interesse che il singolo cittadino nutre nei confronti di un argomento su cui, conclude Floridi, “è necessario un dibattito sempre più vivo, data l’importanza della posta in gioco”.

La democrazia di uno stratega: Lyttelton commenta Churchill

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Fotografia di Monica Merola

di Monica Merola (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

Un lungo applauso accompagna la commozione che Adrian Lyttelton non riesce a trattenere davanti al pubblico, se non con un sorriso malinconico. Nella penombra del Teatro Gobetti un’atmosfera silenziosa ha fatto da sfondo alla lettura delle parole di Winston Churchill e all’analisi del suo rapporto con i contemporanei, come lo scrittore George Orwell. Lyttelton, docente inglese di Storia, ha commentato alcuni discorsi pronunciati da  Churchill durante il Secondo conflitto mondiale, come quello del 1940 alla Camera dei Comuni. 

La lotta alla sopravvivenza dell’Europa trasuda dalle parole del grande statista, lette dall’attore Umberto Orsini. Una voce profonda che rimbomba nella sala consegnando al pubblico emozioni e interrogativi. “Non vorrei presentarvi un guerrafondaio – incalza Lyttelton- perché non sarebbe la verità. La domanda cruciale è: era possibile fermare Hitler?”. 

Gli inglesi affidarono a Churchill un compito che il docente definisce “enorme”. Ma quale fu il suo personale asso nella manica affinché l’Europa – e il mondo – si liberassero del nemico? Per Lyttelton “uno dei suoi migliori colpi di genio fu interpretare la guerra come una cosa di pochi e non di molti. Questa considerazione può sembrare elitaria, ma mai prima era stata coinvolta l’intera popolazione civile. Fu davvero geniale trasformare la realtà in una ragione per sottolineare il vantaggio della democrazia sul totalitarismo”. Un approccio che fu fondamentale per un conflitto decisivo sotto ogni aspetto. La Seconda Grande Guerra ha, infatti, cambiato i connotati della nostra società. E forse non sarebbe stato ugualmente possibile senza la presenza di tutte le personalità che ne hanno delineato l’andamento, come Churchill. La credibilità dello statista, per Lyttelton, “derivò soprattutto dalla sua posizione nei confronti della Germania nazista, di cui capì subito la natura pericolosa e aggressiva. Ma per mettere fine al conflitto non avrebbe escluso l’ipotesi di un accordo”. 

Non mancano delle ombre su questo personaggio chiave. Basti pensare al suo rapporto con Mussolini o De Gaulle, quest’ultimo definito “come la croce più pesante da sopportare”, fino alla sua condotta bellica, passando alle accuse contro i suoi ex compagni del partito laburista. Le lacrime dello storico sgorgano dopo la lettura del discorso dell’8 maggio del 1945, quando la Germania in Europa si era ormai arresa. “Dio vi benedica tutti – legge Orsini – perché questa vittoria è la vostra vittoria, e la vittoria della causa della libertà ovunque nel mondo”. 

La Costituzione e il mancato comma sulla “disobbedienza”. A lezione di rinascita civile dal prof. Viroli

La Costituzione e il mancato comma sulla “disobbedienza”. A lezione di rinascita civile dal prof. Viroli
Maurizio Viroli

Fotografia di Fabio Miglio

di Gianluca Palma (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

Tornare ai principi fondanti della nostra Repubblica rispettando e valorizzando la nostra “sacrosanta” Costituzione, non cancellandola come sta facendo il governo.  Non ne ha dubbi Maurizio Viroli, storico ed esperto di filosofia della politica, professore emerito all’Università di Princeton negli Usa.

Ieri alle 18.30, al Teatro Gobetti di via Rossini, si è tenuta la sua lezione su “rinascita morale e rinascita civile” della società contemporanea, introdotta da Gabriele Magrin, all’interno degli incontri di Biennale Democrazia. Un intervento di un’ora e mezza sulle “drammatiche” condizioni in cui versa il nostro Paese, in preda al degrado morale e sociale, oltre che politico ed economico. 

“Non possiamo prescindere dal nostro passato – ha sottolineato Viroli -. La storia d’Italia l’hanno fatta grandi uomini di un tempo, come Bobbio, Calamandrei e i Padri Costituenti e potrei fare un lungo elenco”.

Proprio a proposito dell’Assemblea Costituente, ha raccontato un interessante aneddoto: “Durante quel lavoro, si discusse se introdurre il secondo comma dell’art. 52, che prevedeva il dovere, oltre che il diritto, dei cittadini di ribellarsi di fronte a palesi violazioni dei diritti fondamentali. Dissentire di fronte alla tracotanza dei pubblici poteri. Ma alla fine non fu approvato per timore di innescare la disobbedienza civile. Per me quella non è disobbedienza, ma fierezza civile”. 

Un discorso a 360 gradi, quello del professore, che ha ricordato anche le parole di Machiavelli, secondo cui ogni possibile rinascita in una società, può avvenire per tre motivi: in seguito a una catastrofe, grazie a una buona legge o tramite un leader serio e interessato al bene comune.

“Attualmente in Italia non esiste nessuna di queste tre condizioni. Anzi, al posto delle buone leggi assistiamo alla scomparsa della nostra Costituzione. Questa classe politica sta interpretando in maniera distorta l’art.138 che consente piccole revisioni della Carta, ma qui stanno cambiando più di 40 articoli, è una vergogna!”.

Un altro attacco il professore l’ha rivolto all’intera classe dirigente, ricordando l’art. 67 della Costituzione: “Ogni rappresentante istituzionale e politico non è li per rappresentare il suo partito o solo chi l’ha votato, ma l’intera nazione”. 

Quando dal pubblico gli hanno chiesto, quindi, come far rinascere davvero il nostro Paese, ha risposto: “Dobbiamo ripartire dalle scuole, dall’educazione, ascoltando chi ha qualcosa da insegnarci. Bisogna ripartire dalle regole basilari del vivere civile e dei valori che caratterizzano la nostra identità di patria repubblicana”. E indicando un ragazzo seduto in platea ha conlcuso: “Stasera è presente tra noi Nicola Mandiroli, rappresentante trentenne dell’Associazone Etica, che sta coinvolgendo diciottomila studenti delle scuole del Piemonte nel progetto Diderot, insegnando l’educazione civica. Sono anche questi gli esempi da valorizzare”. 

“Generazioni”, la lezione di Gustavo Zagrebelsky

“Generazioni”, la lezione di Gustavo Zagrebelsky
Gustavo Zagrebelsky

Fotografia di Fabio Miglio

di Maria Teresa Giannini (Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

Quando il filosofo Remo Bodei ha pubblicato il suo libro “Generazioni”, non poteva immaginare  che il Presidente di Biennale Democrazia, Gustavo Zagrebelsky, avrebbe dedicato un intero appuntamento appositamente sui passaggi di generazioni.

“Esistere” non significa “vivere”

Il concetto che contiene un imperativo morale, quello di distinguere fra “esistenza” come  tempo vegetativo e conservatrice e “vita” vera. “Il concetto di vita contiene un fattore mortale e uno rigenerativo”, ha spiegato l’ex giudice costituzionale, avvertendo sulla necessità della “disobbedienza costruttiva” come segnale di vita delle nuove generazioni. “Konrad Lorenz rispondeva che la curiosità e la capacità di apprendimento distinguono gli animali dagli uomini. I figli troppo ligi e troppo ubbidienti, perciò, invece di piacere ai genitori dovrebbero preoccuparli”.

Quel conservatore di Platone

Secondo Zagrebelsky, la storia ha dimostrato come la società abbia superato quanto affermava Platone nella Repubblica a proposito della necessità, per uno Stato giusto, che i vecchi governassero e i giovani obbedissero, evitando di uscire dagli schemi.

La scomparsa della Sfinge

La modernità ha compiuto un salto eccessivo da un’epoca in cui il fulcro della società erano gli adulti e gli “anziani” saggi, forti della loro esperienza consolidata nel tempo, ad una in cui si esalta l’acerba giovinezza fine a se stessa. Perfino la categorizzazione delle tre età dell’uomo è messa in discussione: paragonando queste al ciclo solare, si potrebbe dire che oggi manca l’apogeo, quel mezzogiorno paragonabile all’età adulta. Sempre più persone tentano di ritardare il proprio tracollo fisico ricorrendo alla chirurgia estetica, ma quando arriva è la fine.

Il profitto padrone

L’economia globalizzata, basata non sulla cooperazione per il benessere ma solo sulla corsa a una produttività crescente (non solo nelle merci ma soprattutto nell’attività finanziaria), modella ormai il tempo della vita, trasformandola in un succedersi di stati febbrili e inviando alle persone un solo messaggio:  “Sei giovincello come consumatore ma vecchio come produttore”. L’equazione è quindi data e semplicistica: o sei produttivo, quindi giovane, o sei improduttivo.

Successo vs. Insuccesso

“Viviamo in un’epoca in cui lo sviluppo è aggrappato alla produttività, come in un patto col diavolo, e le singole vite legate al successo o all’insuccesso. Eppure la nostra epoca passa per essere quella del trionfo dei diritti. Ma sarà così? – si chiede Zagrebelsky – I diritti umani ufficialmente impediscono l’instaurarsi di una sorta di cannibalismo dell’economia sugli uomini, ma nei fatti no”.

La cieca fiducia nel progresso, come forza non regolabile, ci porta da Erbert Spencer (teorico del “darwinismo sociale”) a Jared Diamond, autore del saggio “Collasso”. “Coloro che promettono benefici omettendo i sacrifici non dicono il vero, ma adescano”, avverte il presidente di Biennale, richiamando il caso terribile dell’Isola di Pasqua, scoperta nel 1722 e nel giro di 250 anni ridotta alla rovina e all’antropofagia fra i suoi stessi abitanti.

Pensare alle generazioni future senza presunzione

“Io e te, caro amico, siamo stati posti dalla storia in un tempo in cui avrebbero voluto vivere i grandi legislatori del passato”, scriveva uno dei costituzionalisti degli Stati Uniti in una lettera a Thomas Jefferson. E in effetti, come commenta Zagrebelsky, la mancanza di una costituzione rigida in alcuni paesi risponde all’esigenza di non cristallizzare la visione del mondo delle vecchie generazioni (proprio a Jefferson si deve la massima “la terra è dei viventi”). 

La nostra costituzione risponde invece al principio latente di ereditare ciò che i grandi ci hanno tramandato, ma guai a cadere nell’immobilismo: le giovani civiltà, infatti, tendono ad affrancarsi dal peso delle vecchie generazioni, mentre quelle vecchie restano legate solo e soltanto a esse.

La dicotomia fra rinnovamento e speculazione sul passato spiega perché spesso energia e cultura sono inversamente proporzionali.

Già Thomas Mann metteva in guardia dai cosiddetti “cervelli fini”, coloro che dicono di averne viste di tutti i colori e soffrono la “nausea del conoscere”. “L’uomo moderno consuma smodatamente cultura, ma è sterile  – conclude Zagrebelsky –. Tutto ciò è abietto e indegno, non è vita, è morte. Ma la nuova generazione deve tirare fuori, con coraggio, la propria sete di vita”.

Thyssen Opera Sonora: da racconto a memoria collettiva

Thyssen Opera Sonora: da racconto a memoria collettiva
Ezio Mauro

Fotografia di Fabio Miglio

di Sabrina Colandrea (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

“Se a Torino chiedi degli operai della Thyssen ti indicano il cimitero”, recita dal palco il direttore de “La Repubblica” Ezio Mauro, riprendendo il reportage firmato nel gennaio 2008, un mese dopo i fatti. Era la notte fra il 5 e il 6 dicembre 2007 quando sette operai della “ThyssenKrupp” di Torino furono investiti dall’incendio provocato dalla fuoriuscita di olio bollente usato per raffreddare i laminati. Per la serata inaugurale di Biennale Democrazia, nella cornice del Teatro Regio, si è scelto di tenere viva la memoria delle vittime di una delle vicende di cronaca più note degli ultimi anni con la prima assoluta di “Thyssen. Opera Sonora”, per la regia di Pietro Babina e con le musiche di Alberto Fiori.

Uno spettacolo dalla scenografia minimale, fatto quasi solo di suoni e voci: quelle di chi è rimasto, come Giovanni Pignalosa, operaio sopravvissuto all’Inferno, o come la moglie di Rocco Marzo, morto pochi giorni prima di andare in pensione, interpretata da Alba Rohrwacher. Il pubblico ha mostrato di gradire l’opera, tramutando degli applausi sempre più scroscianti in una standing ovation, a testimonianza di un ricordo ancora vivo.

Con le parole di Mauro: “Al cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non comprano più le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le hanno sempre in tasca. Metterle lì, tra i fiori dei morti, è un modo per riconoscerli, per renderli visibili”.

“Abbiamo costruito troppi muri e pochi ponti”. Inaugurazione dell’opera Attraverso

“Abbiamo costruito troppi muri e pochi ponti”. Inaugurazione dell’opera Attraverso
Attraverso

Fotografia di Veronica Minniti

di Veronica Minniti (www.digi.to.it)

Il primo giorno di Biennale Democrazia è stato all’insegna della pioggia. Questo, tuttavia, non ha impedito a moltissime persone, soprattutto giovani studenti delle scuole superiori, di assistere all’inaugurazione di Attraverso, un’opera “in tre atti”, un’installazione ludica concepita e sviluppata da Ugo Li Puma – designer, scenografo e sperimentatore – che riassume bene il tema di questa edizione, “Passaggi”.

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L’Europa della cultura. La lezione inaugurale di Claudio Magris

L’Europa della cultura. La lezione inaugurale di Claudio Magris

Tv: Rai; 'Che Tempo che Fa'

di Maria Teresa Giannini (Master in giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino)

Esiste una vera identità culturale europea? Da dove partire per ricostruirla, in questi tempi di sfiducia?

Davanti al pubblico che siede numeroso nella sala del Teatro Regio per la lezione inaugurale di Biennale Democrazia, il direttore del quotidiano La Stampa Mario Calabresi pone la prima domanda allo scrittore Claudio Magris: “L’Europa a cui anelavano i padri costituenti e che anche noi vorremmo è laica, aperta, ma anche capace di difendere alcuni valori. Quali, secondo lei?”.

Magris inizia quindi la propria lezione inaugurale auspicando la creazione di un super-Stato europeo, pur nella consapevolezza di non riuscire a vederlo realizzato a breve termine. “Steiner sostiene che l’identità europea si possa definire in base ad alcune categorie, ma a ben vedere essa esisteva pure mentre i singoli Stati si massacravano, senza capire di trovarsi alla vigilia di una delle più grandi carneficine di tutti i tempi: la Guerra Mondiale”. 

Come è potuto accadere? Questo smentisce forse che sia una cultura comune a legare più soggetti sotto il grande ombrello d’Europa?

Il “rischio arcadico” 

Una prima risposta può arrivare dal costante svilimento della “cultura”, quale capacità critica e autocritica di esercitare in ogni contesto, a favore di un’identificazione del sapere e del pensiero con i suoi ambiti specifici. “Avverto un forte rischio arcadico”, dirà poi Magris, riferendosi al pericolo di frammentare la cultura, riducendola a mera forma e svuotandola di contenuto universalistico.

L’individuo al centro

La civiltà europea, a differenza delle altre grandi da cui ha attinto, ha messo l’accento sull’individuo: qui nacquero la “polis”, l’ umanesimo, il liberismo e il socialismo. Certo, l’Europa ha le sue enormi colpe – si pensi alla tratta dei neri o ad Auschwitz – ma grazie al suo stesso spirito fondante verrà istituito il tribunale che giudicherà quei crimini.

Il singolo come parte del tutto

Un altro aspetto che rende europei gli italiani quanto gli olandesi, i tedeschi quanto i greci, è la comune visione dell’uomo come “zòon politicòn”, individuo parte integrante della società, diversamente dal concetto di “cowboy” americano. “La mia mente va spesso a quel torrefattore triestino – ricorda lo scrittore – che si diceva contento di pagare le tasse perché, nel suo egoismo, desiderava godersi i servizi con cui lo Stato lo ripagava di una vita di lavoro”. L’intreccio magico fra welfare state e “capitalismo renano”, basato sulla produzione e sull’economia reale a tutti i suoi livelli, si confronta ogni giorno con quello anglosassone, al momento egemone ma assai dannoso se lasciato unica fonte di reddito.

Unità nella diversità

L’idea che le differenze siano una ricchezza e la volontà di salvaguardare le identità (parola che dovrebbe sempre essere declinata al plurale) sono le fondamenta che reggono l’intero impianto europeo. “Nel 1618 Cesare Ripa scriveva che ‘l’Europa ha l’aspetto di una donna con un vestito da tanti colori perché c’è più varietà che in altre parti del mondo’”, spiega Magris. “Ma, senza tornare così indietro nel tempo, potremmo citare Habermas, che già negli anni Settanta ha sostenuto quanto sia pericoloso ideologizzare la diversità, o Todorov, per il quale, mai come oggi, sia opportuno mettere insieme l’universalismo etico e la salvaguardia delle differenze”.

La nazione: punto di partenza e mai d’arrivo

La nazione è una premessa che può realizzare un valore ma non è un principio in sé. “Purtroppo, però, quello dell’Europa come unione politica – ammette lo scrittore – è un percorso molto lungo e difficile perché fondato sulla pace, e notoriamente solo la guerra porta a sconvolgimenti rapidi”.

L’afflato del Manifesto di Ventotene, che aveva accompagnato la nascita dell’Unione e i suoi primi anni di vita, sembra essersi sospeso, schiacciato da un’elefantiasi burocratica, tutta prassi e niente ideali. “Personalmente, non sono d’accordo con chi sostiene che l’Europa sia morta, perché l’opposto di “bellum” non è “imbelle”. Dobbiamo combattere una battaglia per l’estensione della partecipazione e per un’effettiva apertura mentale e fisica con le armi dei valori laici. Dovremmo, inoltre, far comprendere finalmente che gli immigrati non sono solo una questione che riguarda Lampedusa, ma meritano una gestione allargata e solidale, visto che le conseguenze di una mancata compattezza europea si diffondono presto dai paesi rivieraschi agli altri”.

Uno spunto, la questione dei migranti, che Mario Calabresi coglie per rivolgere a Magris le due domande conclusive sull’aquis comunitaire (l’insieme dei criteri che ogni paese deve rispettare per candidarsi all’ingresso nell’UE) e sull’atteggiamento scostante di alcuni paesi nei confronti di una maggiore integrazione.

Mi sembra che ci sia stata una smania di inclusione quando i tempi non erano ancora maturi. Si pensi alla Turchia, paese tanto corteggiato dall’Europa più per motivi geopolitici che identitari. Molti paesi come la Norvegia, inoltre, – ha concluso Magris – preferiscono storicamente non accostarsi più di tanto al progetto europeo, il che è un loro diritto economico ma è senz’altro anche un peccato originale politico”.

Al via Biennale Democrazia 2015!

Al via Biennale Democrazia 2015!

L’attesa è finita! Campus Luigi Einaudi, Piazza San Carlo, Teatro Regio: l’apertura di Biennale Democrazia si sviluppa in tre luoghi-simbolo della città di Torino. Iniziata alle 10.30 con la conferenza della video-artista Ursula Biemann, la prima giornata di Biennale continua con l’inaugurazione della mostra di Eva Leitolf e Victor González e dell’installazione Attraverso a cura di Ugo Li Puma. Alle 18 e alle 21.30 i due momenti-clou al Regio: la lezione magistrale di Claudio Magris e la prima assoluta di Thyssen Opera Sonora di e con Ezio Mauro. Buona partecipazione a tutti e tutte!

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PRENOTAZIONI UNIVERSITARIE
L'Università di Torino, in collaborazione con Biennale Democrazia, ha stipulato un accordo per consentire la partecipazione alla quarta edizione, istituendo per gli studenti dei propri corsi di studio dei percorsi riservati.
IL TEMA 2015
Il tema della quarta edizione di Biennale Democrazia – che si svolgerà a Torino dal 25 al 29 marzo 2015 - é Passaggi. Passaggi che possono fungere da collegamento fra due luoghi separati da un confine, un muro o una barriera - fisica, mentale o virtuale - ma che possono anche designare delle svolte, delle soglie al di là delle quali il mondo e la percezione che ne abbiamo muta, come accade per le fasi della vita degli individui o per le epoche storiche.
GIOVANI E SCUOLE
Anche quest'anno, Biennale Democrazia offre agli studenti del triennio delle scuole superiori la possibilità di partecipare agli incontri della manifestazione. E' possibile fare richiesta di prenotazione dal 9 marzo alle ore 12 del 16 marzo, inviando una mail al seguente indirizzo scuole.bd@comune.torino.it, indicando: il titolo degli incontri desiderati, la classe, l'istituto, i recapiti telefonici e e-mail dell'insegnante, totale dei partecipanti.
ARCHIVIO MULTIMEDIALE
Oltre 200 ore di grandi lezioni, dialoghi, letture di classici e dibattiti che hanno avuto luogo nelle scorse edizioni di Biennale Democrazia sono adesso disponibili online.